Per trovare pace e libertà: il coraggio di Rahimi

Rahimi Saif è un rifugiato afghano, ha 30 anni e vive e lavora a Padova dal 2012. Dalla fine di agosto il suo nome è rimbalzato su giornali e televisioni locali per il suo appello per portare la famiglia in Italia dopo la presa di Kabul, in particolar modo i tre fratellini di sua moglie. I tre ragazzini si sono ritrovati divisi dalla famiglia in areoporto a causa di un attentato. I tre bambini erano già riusciti ad accedere all’area protetta, mentre i genitori sono rimasti in strada e feriti dall’esplosione. Da quel momento, nessuno ha più saputo nulla dei tre fratelli. Oggi i bambini di 10, 11 e 12 anni sono sani e salvi a Padova, grazie all’inesauribile coraggio di Rahimi.

Avevo 14 anni quando sono fuggito dall’Afghanistan. Sono scappato dopo che i talebani hanno ucciso mio padre e che la mia famiglia si era divisa, alcuni miei fratelli erano diventati parte dei Talebani. Nelle famiglie in Afghanistan succede spesso. Ero solo un ragazzino quando mi hanno preso: volevano portarmi a fare un attentato. Volevano farmi credere che quella fosse la strada di Dio, la strada buona. Sarei stato un kamikaze.

Non appena me ne sono reso conto sono riuscito a correre a casa, dove mia mamma mi ha detto di partire per salvarmi la vita. Non avevo soldi, non avevo nulla. Sono andato in Pakistan, poi in Iran. Dalla Turchia poi sono andato in Grecia e alla fine via mare sono arrivato in Macedonia. Ci ho messo quattro anni ad arrivare in Europa. L’ultima tappa del mio viaggio è stato un treno verso Venezia.  Da lì volevo andare avanti, ma sceso in stazione mi sono sentito bloccato: ero circondato dall’acqua!

Due carabinieri mi hanno accompagnato in questura, sono stato accolto in un centro. Quando ho detto che ero afghano, hanno capito subito. Ho vissuto a Mestre per un anno e nel 2012 sono arrivato a Padova. Allora, però, dormivo in strada. Sono venuto a conoscenza di Popoli Insieme, del centro di accoglienza e di quello che facevano: ho deciso di andare allo sportello del martedì e di raccontare la mia storia. Mi hanno detto che avrei dovuto aspettare due giorni, ma con mia sorpresa la sera stessa mi hanno raggiunto in stazione e mi hanno accompagnato al dormitorio in via Minio.

Lì ho trascorso qualche mese e, dopo aver ottenuto il permesso per motivi umanitari, ho cominciato a lavorare. Adesso faccio il pizzaiolo qui a Pontecorvo dal 2015

A volte penso che se fossi rimasto in Afghanistan ora sarei morto, è tutto qua. Quando sono partito non sapevo dove sarei andato, ma sapevo che ero alla ricerca di un posto dove ci fossero pace e libertà”

Qui a Padova Rahimi vive con sua moglie e la sua bambina di soli pochi mesi. Dopo la presa di Kabul il primo pensiero è stato per sua madre e per i suoi suoceri, collaboratori dei militari italiani che avrebbero dovuto salire su un aereo per salvarsi:

“Per otto giorni e otto notti non ho dormito. Mio suocero lavorava nel Ministero degli Interni in Afghanistan e già da tempo era ricercato dai talebani in Afghanistan. Dopo la caduta di Kabul, però, la situazione per la famiglia è peggiorata. Proprio per la sua collaborazione con i militari italiani era stato messo in lista con tutta la famiglia per essere portato in Italia con i corridoi aerei. Aveva un appuntamento alle tre del pomeriggio in aeroporto a Kabul. C’erano tantissime persone ed era molto difficile riuscire ad accedere. C’era un passaggio da attraversare per entrare nell’area protetta, tutta la famiglia era pronta a partire. I tre figli più piccoli sono riusciti ad entrare, i miei suoceri stavano per raggiungerli quando c’è stato un attentato.

Da quel momento in poi la famiglia di mia moglie si è trovata divisa: i bambini dentro l’aeroporto, i genitori  fuori e feriti. Subito mi hanno telefonato per avvisarmi di questa situazione e anche del pericolo che stavano correndo: i miei suoceri e l’altro figlio rimasto con loro, in quanto famiglia di ricercati, avrebbero rischiato la vita anche solo a recarsi all’ospedale. Lì, infatti, i controlli li fa la polizia, ovvero i talebani. In qualche modo, anche se feriti e con difficoltà a camminare, sono riusciti a nascondersi e a comunicare con me.


Da quel momento è iniziata l’instancabile ricerca di Rahimi che, dall’Italia, si è messo in contatto con diverse persone per riuscire a rintracciare i fratelli di sua moglie. Che fine avevano fatto? Erano riusciti a salire su un aereo?


Ero molto preoccupato per i tre bambini rimasti dentro all’aeroporto. Nessuno aveva idea di dove fossero finiti. . A forza di cercare sono riuscito a trovare il numero di un interprete per i militari italiani per chiedergli se li avesse visti. Abbiamo chiesto anche ad alcuni conoscenti di andare a controllare che in aeroporto non ci fossero i loro corpi, ma di loro nessuna traccia.

Dopo due giorni entro in contatto con un altro interprete: mi dice di aver visto tre bambini, ma ce n’erano talmente tanti che era difficile pensare fossero loro.

Abbiamo cominciato a pensare che fossero finiti su un aereo dei militari americani, ma in quel caso sarebbero stati in una delle basi in Qatar o Kwait.

Mi hanno detto che un aereo era arrivato in Qatar, allora ho cercato di entrare in contatto con politici e consiglieri per raggiungere qualcuno che potesse aiutarmi, magari nel Ministero degli Esteri. Mia moglie è la sorella maggiore dei tre ragazzini, doveva pur contare qualcosa.

Un giorno mi è arrivata la telefonata di un generale a capo dei corridoi aerei dall’Afghanistan. Mi ha chiamato lui personalmente, mi sono commosso. Ha detto che aveva sentito tanto parlare di me e si era messo in cerca dei tre bambini.

Alcuni militari italiani sono andati a cercarli in uno dei grandi campi profughi che ci sono in Qatar. Mi hanno chiesto delle foto dei bambini per poterli riconoscere. Proprio quando non ci speravo più, uno di loro mi ha mandato la foto di tre bambini : non ci potevo credere, li aveva trovati!

Dopo quindici giorni di ricerche, il 31 agosto, sono arrivati sani e salvi all’aeroporto Ciampino a Roma“.

Io sono dovuto fuggire a soli 14 anni per salvarmi la vita. Per questo quando ho saputo di questi tre bambini, mi sono detto che a qualsiasi costo li avrei trovati.”

Ora Rahimi vive con sua moglie, sua figlia e i tre ragazzini che, da un giorno all’altro, si sono trovati tra Afghanistan, Qatar e Italia e traumaticamente separati dalla loro famiglia. Vivono in sei persone in una casa per due. In qualche modo Rahimi sta provando a tenere tutto insieme, il suo però è l’unico stipendio.

Due volontarie di Popoli Insieme seguono i ragazzini nell’apprendimento dell’italiano e l’Associazione lo ha accompagnato nell’iscrizione a scuola e nella somministrazione del vaccino.

Questo però non è abbastanza: le difficoltà sono tantissime, a partire dalla casa troppo piccola e dagli ostacoli nel trovarne una adatta, nonché la salute cagionevole di una delle due bambine arrivate dall’Afghanistan. Il percorso di inclusione dei tre fratelli, però, è appena iniziato: una nuova città, una nuova lingua e una quotidianità da ricostruire dopo aver trascorso dei giorni in un campo profughi in Qatar e dopo un violento distacco dai propri genitori, senza sapere se e quando li rivedranno.

Insieme possiamo costruire una comunità pronta ad accoglierli.

Insieme possiamo provare a farli sentire “a casa”.

Scopri come sostenere Rahimi, la sua famiglia e le altre famiglie afghane accolte negli ultimi mesi!

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