Francesca

Francesca, da anni volontaria dell’associazione, descrive la bellezza dell’incontro e della relazione costruita con M. e riflette sulle conseguenze della chiusura totale e del distanziamento sociale dovuto al Covid19:

“Quest’estate, poco dopo la fine del lockdown, mi sento con M. per incontrarci di nuovo di persona. M. è il primo ragazzo che ho conosciuto con Popoli Insieme, lo aiutavo con l’italiano. Un ragazzo più o meno della mia età, timido, riservato, serio, diligente, con una grande voglia di farcela. All’inizio il suo muro di riservatezza non è stato facile da spezzare: per alcune settimane non abbiamo avuto una conversazione, oltre ai semplici dialoghi funzionali a imparare qualcosa di nuovo della lingua italiana.

Ad un certo punto è stato trasferito in una nuova casa. Ogni mercoledì pomeriggio attraversavo Padova per essere accolta da lui in salotto con un bel bicchierone di the con il latte, oppure succo di frutta, oppure entrambi. E con noi c’era anche I., un ragazzo somalo suo coinquilino: arrivava sorridente con un altro bicchiere di the con il latte e una montagnetta di anacardi, o con degli involtini di carne, lo spuntino perfetto per le 4 del pomeriggio. Parlava zero italiano, non aveva voglia di fare lezione, ma si sedeva con noi.
Ricordo il giorno, forse la terza o quarta volta che andavo lì, quando I. ha cominciato a fare domande su domande, come si dice questo, come si dice quello, indicando le tende, i lampadari, i vestiti, i cibi, senza quasi lasciarmi tempo per M. Così il mercoledì successivo non sono tornata sola, ma con Anna, mia amica, e si è formato un quartetto a volte magico, a volte sgangherato, che per un anno ha dato colore alle nostre settimane. Settimane in cui abbiamo studiato, ascoltato musica, giocato a Dixit, ripetuto centinaia di volte i nomi delle parti del corpo e riso perché l’ascella diventava irrimediabilmente l’arcella. In cui abbiamo scoperto che il concetto di mese e di stagione non è immediato in un paese in cui il clima è uguale tutti i giorni. In cui abbiamo scoperto che mangiare il gelato in alcuni paesi è da bambini. E che gli spaghetti al pomodoro sono un piatto tipico della Somalia. Che la famiglia può avere un posto importantissimo anche quando è lontana migliaia di km. E che con la scusa dell’italiano si poteva arrivare a condividere cose molto intime e profonde.

Ripensavo a tutto quest’estate, subito dopo il lockdown. Era martedì, avevo rimandato l’incontro con M. di qualche giorno, ma quell’incontro non c’è più stato. Stanco di tante cose, dell’incertezza e della mancanza di lavoro nonostante tutti i suoi sforzi, M. senza dire niente a nessuno era partito, via, lontano da Padova, e con l’intenzione di non tornare. Non mi aveva avvisato perché non voleva che tentassi di fermarlo. Lo capivo, ma ho sentito qualcosa crollare dentro di me, per questo percorso finito all’improvviso, senza avvisare, e per non essere stata in grado di dargli l’aiuto di cui aveva bisogno per restare. I. era già partito qualche mese prima.

Sembrava un percorso finito, e invece non passano due settimane ora senza che ci sentiamo, senza che M. mi chieda come sto e si interessi dei miei problemi, così più piccoli dei suoi. Senza che I. mi chiami sorridente, e con un italiano che conosce molto meglio mi offra ancora un piatto di sambusa o di spaghetti al pomodoro.”

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