Lo scorso 9 dicembre al Centro Universitario, nell’ambito dell’iniziativa “Kabul-Padova: percorso ad ostacoli verso la pace” promosso da Popoli Insieme e dal gruppo Emergency di Padova, si è tenuta la tavola rotonda dal titolo “Cercando pace. La questione afghana con gli occhi di chi fugge”. L’incontro a più voci moderate da Luca Bortoli, ha riunito le preziose testimonianze dello scrittore Alidad Shiri, di Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi di Linea d’Ombra ODV e di Ali, rifugiato afghano evacuato da Kabul in agosto e accolto da Popoli Insieme.
I chilometri che separano Padova da Kabul sono più di 6.000, eppure la crisi afghana non ci è mai sembrata così vicina. Dopo la presa di Kabul, molte persone, soprattutto collaboratori e interpreti per le missioni militari sul posto, sono riusciti a salire su un aereo e a mettersi in salvo. Per la prima volta abbiamo visto le conseguenze della guerra nel momento stesso in cui la crisi si stava consumando: dal giorno alla notte, infatti, migliaia di rifugiati afghani sono stati accolti nel nostro Paese.
In fuga da Kabul
Ali in Afghanistan aveva lavorato come interprete e, dopo aver studiato all’Università, si era speso per i diritti delle donne e delle bambine. Insieme ad alcuni colleghi aveva fondato un’associazione che, in una delle regioni più conservatrici dell’Afghanistan, si batteva per emancipare le donne e permettere loro di studiare e lavorare, di imparare l’inglese e di utilizzare il computer. “Nel 2001” ricorda Ali “si sono aperte molte possibilità in Afghanistan per le minoranze e per le donne”. Negli ultimi vent’anni, nonostante le numerose difficoltà di un Paese mai davvero in pace, Ali è riuscito a studiare, a frequentare l’Università e a trovare un lavoro. Nell’estate del 2021, però, tutto è cambiato. I Talebani hanno cominciato a conquistare distretto dopo distretto e hanno assediato Kandahar, la città in cui viveva. Dopo qualche giorno è riuscito a fuggire con la moglie e la bambina a Kabul, ma i Talebani erano già arrivati alla capitale. Rimasto nascosto per tre giorni nella casa della zia, Ali ha ricevuto un messaggio dai militari italiani: sull’aereo c’era un posto per lui e la sua famiglia. All’aeroporto però erano migliaia le persone in attesa di un volo, non si poteva entrare, ma neppure si poteva uscire. Lì Ali ha atteso quattro giorni con la moglie e la bambina di 6 mesi, fino a che non sono saliti su un aereo. Il giorno dopo erano al sicuro, in Italia. Ospitato da Popoli Insieme nella prima fase dell’accoglienza, oggi Ali studia “Local developement” all’Università di Padova grazie ad una borsa di studio. Il suo percorso di inclusione è appena iniziato.
Lungo la rotta balcanica
La storia di Ali e della sua famiglia è, purtroppo, un’eccezione e lo sanno bene Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi. La coppia dal 2015 sostiene e si prende cura delle migliaia di persone che, ogni giorno, arrivano dalla rotta balcanica nella città di Trieste per poi proseguire il loro viaggio. Per la maggior parte si tratta di giovani ragazzi partiti dall’Afghanistan e dal Pakistan, che hanno abbandonato il loro Paese appena adolescenti o ancora bambini e, in Europa, ci arrivano da giovani adulti. “Noi ci prendiamo cura dei transitanti, di quelli che vengono chiamati clandestini , ma che prima di tutto sono persone” ha affermato Lorena Fornasir, sottolineando quanto l’indifferenza possa uccidere più di una guerra. Prima di arrivare a Trieste questi ragazzi subiscono numerosi respingimenti violenti e, in tanti, non riescono a superare la rotta balcanica e ci rimangono bloccati, o perdono la vita. Di 100 che partono, raccontano Lorena e Gian Andrea, 90 vengono respinti. Nonostante il rischio sia così alto, ragazzi e uomini tentano il “gioco” della rotta anche sette o otto volte: o riescono a superare la frontiera o muoiono, non hanno altra scelta. “Quello che noi facciamo voi lo chiamate umanitario, ma noi facciamo un gesto politico perché riconoscere l’altro è un gesto politico. Ridare l’identità, chiamare un ragazzo per nome, una persona che è stata disumanizzata. Da quanto tempo questi ragazzi non sentono il loro nome?”. Lorena e Gian Andrea sono testimoni di quanto accade ogni giorno a Trieste e a qualche centinaio di chilometri dai nostri confini: campi di confinamento, campi di transito e accampamenti improvvisati sono all’ordine del giorno. Sono uomini, donne e bambini e per loro, ad un passo dall’Unione Europea, non ci sono corridoi umanitari, ma solo muri, indifferenza e respingimenti violenti.
La parola ai rifugiati
Anche Alidad Shiri, giornalista e autore del libro “Via dalla pazza guerra”, è arrivato in Italia nel 2005 dopo quattro anni di viaggio. Come le migliaia di persone che oggi tentano di attraversare la rotta balcanica, anche lui ha abbandonato l’Afghanistan quando era solo un bambino. Dopo aver perso tutta la sua famiglia si è visto costretto a scappare e, pagando dei trafficanti, è riuscito ad arrivare fino in Italia. Per quattro anni ha vissuto da irregolare, rischiando la vita e sempre in fuga dalla pazza guerra. Arrivato a Venezia, ha deciso di infilarsi sotto ad un camion e dopo quattro ore è sceso in Alto Adige, dove oggi ha è riuscito a costruirsi una vita libera, a laurearsi e a lavorare come giornalista. Da anni si impegna per fare luce sulla questione afghana e sulla condizione di donne e bambine e ci ha raccontato come, specialmente dopo la presa di Kabul, la situazione è drasticamente peggiorata gettando milioni di persone in una situazione di povertà estrema. Sono passati più di 15 anni da quando Alidad è arrivato in Italia, a riprova che quella afghana non è una crisi recente, ma che ha radici molto profonde e di cui vedremo le conseguenze, anche nei flussi migratori, per molto tempo ancora. Un punto fondamentale su cui Shiri ha voluto pronunciarsi, è la necessità di lasciare spazio e voce ai rifugiati: “I media raccontano i rifugiati in due modi: in modo aggressivo o paternalistico. Ma noi siamo prima di tutto persone e vogliamo essere delle risorse per questo Paese. Sui giornali, in tv, tutti parlano dei o a nome dei rifugiati, ma i rifugiati non hanno quasi mai l’opportunità di raccontarsi”.
Quanto è importante raccontare ciò che accade alle migliaia di persone in fuga dall’Afghanistan e, soprattutto, lasciare che siano loro a raccontarsi è stato cristallino ascoltando le voci di Ali, Lorena e Gian Andrea e Alidad. Queste tre testimonianze così preziose, ci hanno permesso di percorrere la strada ad ostacoli verso la pace che che da Kabul arriva a Padova, passando per Trieste. E di provare a vedere la questione afghana con gli occhi di chi fugge.
Qui il video completo dell’incontro!
L’iniziativa è stata resa possibile grazie al contributo del Comune di Padova – Assessorato Pace, Diritti Umani e Cooperazione.